Favola per cervelli curiosi con finale annunciato
C’era una volta un villaggio. Non una volta a caso. Una volta precisamente collocata nel 658 dopo Cristo.
Anche il villaggio non era un villaggio a caso. Era un villaggio che sorgeva su una collina tozza, in quella fascia rocciosa, non ancora montana, che oggi chiameremmo Le Prealpi Liguri.
Sorgeva, giustamente al passato, perché oggi non c’è più. Era un bel villaggio. Chi ci abitava pensava che un giorno sarebbe diventato una città, una di quelle con le strade lastricate e le fogne sotto le case.
Chiameremo questo villaggio Uma al solo scopo di consentire a me, l’autore, di chiamare Umani i suoi abitanti.
Ai tempi della nostra storia, Uma si vantava di essere un villaggio al passo coi tempi. Tutti gli ultimi giocattoli prodotti dall’hi-tech medievale erano lì, come medaglie sul petto della comunità. Gli umani erano sicuri di se stessi, orgogliosi dei propri risultati e proiettati verso un futuro di gloria, benessere e sicurezza: il successo di Uma era la vittoria della mente sulla materia.
C’era un bel pozzo in muratura, mulini ad acqua di ultima generazione e sistemi di irrigazione pazzeschi che portavano acqua a tutti i campi coltivati. Inoltre era appena stata introdotta la rotazione delle colture, con risultati pazzeschi sulla qualità e quantità dei raccolti.
Si viveva così bene, a Uma, che l’aspettativa di vita era di 42 anni, rispetto ai 40 del resto d’Europa. Risultato miracoloso a disposizione, ovviamente, solo di chi riusciva a uscire vivo dall’adolescenza. La barriera dei 15 anni era un banco di prova importante e si sa che i ragazzi non si riguardano abbastanza, non indossano sciarpine contro il freddo e si ficcano sempre nei guai.
Gli Umani erano esperti di agricoltura, falegnameria, idraulica e carpenteria. Di queste discipline sapevano tutto e amavano ricercare e sperimentare nuove applicazioni. Attrezzi inventati per l’agricoltura risultavano utili, con piccole modifiche, nella lavorazione del legno o nel taglio delle pietre. Una modifica al giogo dei buoi tornava buona anche per le cinghie dei carri da trasporto e così via…
Gli umani in realtà non erano curiosi. Non è che ficcassero il naso in materie nuove, o si lasciassero attrarre da quel che non conoscevano: si limitavano a ricombinare continuamente sempre le stesse nozioni, dando volti nuovi a quello che avevano imparato. Perché è questo quello che fa il cervello, finché non ha nuovi stimoli: assimila e ricombina, impara e migliora, acquisisce e trasforma nozioni.
L’arrivo di qualcosa di sconosciuto
Gli Umani ovviamente non sapevano nulla di come funziona il cervello. In realtà non sapevano nulla di un sacco di cose. Quando uno di loro inventava qualcosa di nuovo, ne parlavano come di un genio creativo, anche se stava semplicemente reinventando quello che tutti già sapevano, in un modo a cui gli altri non avevano pensato.
Quindi se un contadino inventava un nuovo aratro, diventava un eroe da invidiare o stimare. E gli altri contadini, alla peggio, tentavano di imitarlo, mugugnando a denti stretti frasi come “mannaggia avrei voluta averla io quell’idea!”.
Gli umani non viaggiavano, perché era troppo sbattimento. E non erano sulle rotte dei mercanti, perché troppo piccoli e sconosciuti. E per la rivoluzione di Gutenberg e la stampa del primo libro mancavano ancora 700 anni. In una parola, erano isolati: sapevano quel che sapevano e il resto invece non lo sapevano proprio.
Verso settembre arrivò a Uma una signora vecchia, ma vecchia davvero, anche per gli standard medievali. Aveva in programma di proseguire a piedi verso una destinazione a qualche giorno di strada. Ma vedendo quanto era bella Uma, e quanto sani e paffuti erano gli umani, posò a terra la sacca di tela e iniziò a domandarsi “a me chi me lo fa fare?”.
Ma questo non costituiva un problema per gli umani, il loro motto era Tutti sono benvenuti, purché si diano da fare
“Che cosa sai fare tu?” chiesero gli umani
“Sono una curatrice”
“Cosa?”
“Curo la gente”
“Tipo che la tieni d’occhio? Sei una guardia di sicurezza? Un metronotte? Senza offesa ma sono un po’ passati gli anni in cui potevi intimidire qualcuno”
“Facciamo così: quando qualcuno si ammala voi chiamatemi. Faccio prima a farvi vedere come lavoro”
Gli umani annuirono e la accolsero tra loro, fiduciosi. Le diedero in usufrutto gratuito una casetta nel bosco, appena fuori dal villaggio.
La vecchia era brava a trovare funghi e frutti di bosco. Più brava degli umani più bravi. Barattava funghi e frutti con tutto quello che le serviva: legna da ardere, vestiti, cibo, pentole, padelle, alari per il camino, una griglia multifunzione a carbonella…
Una o due volte la settimana si presentava sulla piazza stracarica di prelibatezze da barattare. Gli umani strabuzzavano gli occhi, perché nessuna delle arti e delle tecniche che conoscevano li aiutava a trovare cibo nel bosco. Avevano sempre pensato che fosse questione di fortuna e pensarono che la vecchia fosse, semplicemente, più fortunata.
“Conosco le erbe e tutto quel che cresce… tutto qua!” Gli umani non capirono, ma in fondo erano felici dei loro arrosti coi funghi e delle loro ciotole piene di fruttini rossi e viola.
Quell’anno ci fu un autunno carico di piogge. E poi venne l’inverno più freddo che gli umani avessero mai conosciuto. L’erba, grigia e fradicia, gelava di notte in un tappeto di spilli e ogni mattina era necessario spaccare una spessa lastra di ghiaccio per pescare acqua nel pozzo.
Alcuni adolescenti scapestrati presero a giocare come pazzi sui campi gelati, giocando a scivoloni e rotolandosi nella fanghiglia.
“Fate i bravi ragazzi!” urlavano le madri preoccupate “cercate di non ammalarvi, che se superate i 15 anni avete buone probabilità di viverne altri 15! Basta tener duro ancora qualche anno dai!”
Ma gli adolescenti non ascoltarono e si ammalarono: tosse, raffreddore e un febbrone che li faceva delirare.
“Non perdiamo la calma ragazzi” dissero gli umani “abbiamo la vecchia no? Vediamo cosa può fare”
L’impossibilità di comprendere l’ignoto
E mandarono a chiamare la vecchia, che si presentò in paese con la sacca con cui era arrivata pochi mesi prima. La vecchia mise una mano rugosa sulla fronte dei ragazzi, li tastò sulla gola e ascoltò il loro respiro con l’orecchio destro (quello buono) sul petto.
Poi dalla sacca prese una boccetta con una polvere bianca, la sciolse in alcuni bicchieroni d’acqua e li diede agli adolescenti.
“Fateli bere tanto, possibilmente roba calda. Teneteli sotto le coperte e vedrete che in un paio di giorni staranno meglio”
Gli umani non dissero nulla, ma quello che avevano visto era strano. Diverso da tutto quello che conoscevano.
“Cos’è quella roba che gli hai dato?”
“Polvere di salice. Buona per la febbre e i dolori”
“Polvere di cosa?”
“Salice. Una pianta che cresce più a valle”
“Mai vista”
“Appunto… perché cresce più a valle. Se solo faceste quattro passi fuori da Uma, ogni tanto…”
Per il tramonto uno dei ragazzi iniziò a stare meglio. Entro il giorno successivo tutti apparivano fuori pericolo, affamati e apparentemente destinati a superare la terribile boa dei 15 anni per approdare ad una lunga vita di altri 15/20 anni.
Tutto grazie ad una pianta che nessuno conosceva, ad una polvere mai vista e un po’ d’acqua.
Gli umani fecero quello sapevano fare meglio: rielaborarono tutte le informazioni in loro possesso alla ricerca di una spiegazione che facesse tornare i conti. E non ne trovarono neanche una.
C’era un buco nero in ogni abitante di Uma, in cui cadevano tutte le cose che non potevano essere spiegate. Da quel buco tritatutto uscivano solo due risposte: miracolo o stregoneria.
Purtroppo per la vecchia, nel guarire i ragazzi non aveva chiamato in causa neppure un santo apocrifo, o una madonna qualunque e nemmeno uno spiritello santo… Certamente non aveva compiuto alcun miracolo, altrimenti lo avrebbe detto.
Quindi l’unica, terribile spiegazione era MAGIA NERA, MAGIA DEL DIMONIO! Quella, per intenderci, che condanna tutta la comunità a lustri su lustri di sfiga impossibile.
A Uma, di streghe non se ne erano mai viste, ma nel 658 tutto quello che riguarda streghe e relativi rimedi era conoscenza comune, saggezza popolare come non mettere il cappello sul letto e non abbinare il formaggio col pesce: le streghe erano vecchie, brutte e con un comportamento sospetto.
E andavano bruciate.
Quando arrivarono alla casetta nel bosco la vecchia li accolse con un sorriso a tre denti.
“Stanno bene i ragazzi?” chiese, piena di premure.
“Certo che stanno bene: ma lo sapevi già vero!? Emissaria del dimonio con le doppie punte intinte nello Stige!”
“Come?”
“Ti bruciamo tutta adesso! Tutta! Capito!? Te e le tue polverine sataniche frutto di chissà quali pratiche sessuali col maligno!”
“Ma che cazzo dici?! Ma se ho curato i ragazzi?!”
“L’hai fatto per attirare l’attenzione di Azazot-Betzebub sul nostro bel villaggio operoso”
“In realtà siete voi che conoscete tutti i nomi del diavolo e non avete mai sentito parlare di una pianta che cresce solo quattrocento metri più a valle…”
Ma nulla di quel che diceva la vecchia riuscì a far breccia nei loro cervelli: tutte le informazioni di agricoltura, falegnameria, idraulica e carpenteria, perfino rielaborate nelle più ardite combinazioni, non si avvicinavano neppure lontanamente a quello che le avevano visto fare.
Accadde quindi, e non fu colpa di nessuno, che la vecchina fu legata a un palo, assieme a tutte le sue polverine e medicamenti, e fu bruciata come una fiaccola a San Silvestro.
Epilogo: bene ma non benissimo
Gli umani ballarono tutta la notte attorno al fuoco, suonarono e bevvero sidro. Picchiando uno sull’altro i calici di legno giurarono che tutte le vecchie brutte con un fare un po’ sospetto avrebbero fatto la stessa fine e che mai e poi mai il loro villaggio si sarebbe fatto contagiare da queste o altre stregonerie nate certamente in seno a Mefistofele – Apep – Chernobog – Belfagor!
Decisero di cambiare il motto della città, che da quel giorno divenne “Tutti sono i benvenuti, purché si rendano utili A MODO NOSTRO“
Il giorno successivo tutti avevano un gran mal di testa, qualcuno rimase a letto scosso dai brividi, qualcun altro aveva la tosse. E, come abbiamo detto in apertura, Uma oggi non c’è più.
Alberto Corba – 28 maggio 2021 – Editoriale