Ovvero: un saggio sulla fame di teatro
La polisemia è quello scherzo dell’italiano per cui alcune parole hanno più significati. E a volte non è casuale: capita, invece, che sia una trappola benevola della nostra bella lingua, messa lì a bella posta per insegnarci qualcosa.
Capita che un saggio di fine anno, in cui la parola sta per “assaggio” o “prova” del lavoro svolto e della formazione ricevuta, risulti in realtà un saggio nell’accezione di “trattato” approfondimento specifico su un argomento.
Ho avuto il piacere – e di buon conto la fortuna! – di assistere ai saggi dei primi e dei secondi anni della scuola di acting di Scuola Mohole.
Nella sua sede di Lambrate, Mohole organizza molti corsi legati ai mestieri dell’arte: tutti i cui saggi si svolgono in una due-giorni intensissima che prende il nome di “Nothing” festival. L’appellativo ironico esalta per paradosso la bellezza di queste giornate di gioia ed arte.
Quest’anno, il Nothing festival, ha fornito al vostro umile narratore un saggio sulla fame di teatro, di cui egli stesso blatera in molte occasioni.
Gli allievi attori dei primi anni presentano Il Signore delle mosche, uno studio sul romanzo capolavoro di William Golding. I ragazzi, moltissimi, divisi in due gruppi, hanno svolto un lavoro drammaturgico, oltre che attorale. Portano in scena il frutto delle suggestioni ricavate dal romanzo e, con la guida degli insegnanti , hanno elaborato una struttura su cui ciascun gruppo ha costruito il proprio spettacolo.
Rimango perplesso… è un lavoro delicato, forse un po’ troppo oneroso per studenti che hanno appena iniziato il loro percorso di attori.
Quando si fa buio in sala risulta chiara la mia mancanza di giudizio, e la perplessità sparisce subito.
Sono divisi in due gruppi perché sono tantissimi e ciascun gruppo ha realizzato uno spettacolo tutto suo: due frutti dello stesso albero. Entrambi gli spettacoli prendono vita da una scenografia fisica e sonora, costruita con i corpi e le voci degli allievi: scelta originale che lascia sempre tutti sul palco. I ragazzi si scambiano continuamente i ruoli tra loro, come un gioco, come ragazzini, come i bambini del Signore delle Mosche…
Lo spettacolo è potente, divertente, godibile: del buon teatro.
Il primo gruppo mostra una pulizia ed una drammaturgia cristallina, che non concede scampo allo spettatore, guidandolo impietosamente verso la tragedia umana e selvaggia del romanzo di Golding.
Finito di applaudire sono davvero curioso di rivedere lo stesso spettacolo, e già questo la dice lunga.
La seconda versione concentra il lavoro sull’energia e la furia dei bambini, i protagonisti del romanzo, che sono vivi e credibili in scena. La loro instancabile voglia di giocare, la crudele tenerezza… l’ottusità così simile a quella degli adulti…
Se ne esce col cuore pieno, quella soddisfazione che solo le buone storie ti lasciano addosso, quando sono raccontate come si deve. Non sono stati due spettacoli impeccabili, ma le sporadiche sporcature in un calderone così onesto e partecipe si perdono, si perdonano e gli si trova istintivamente un senso… dimenticandosi che sono dei primi anni quelli in scena…
Furba la decisione di partire da un testo che ha per protagonisti i bambini, scelta che affiancata alla scenografia umana spinge gli allievi verso la chiarezza in scena, verso gli estremi e le dinamiche brutali e competitive del gioco.
Sono ragazzi che hanno appena cominciato. Attori la cui fame di teatro, non ha ancora una forma, eppure li guida già verso l’aula e verso il palco. Ragazzi che, a quanto ne sappiamo, studiano recitazione da 8 mesi…
Mettiamo questa informazione in un angolo del piano di lavoro ed andiamo avanti.
Sono un po’ teso a questo punto. Mi avvicino alla Sala Vigneron, il teatro interno a Scuola Mohole, quando mancano pochi minuti all’inizio dello spettacolo: Non so cosa aspettarmi dal secondo anno… se il primo è questo!
Vuoi il caldo, vuoi la confusione di gestire email, sponsor e piani prove mentre sei immerso nella meraviglia di una giornata di teatro, vuoi che sono fatto così, e dimentico le cose… ma non ricordavo cosa stavo per vedere.
Alzo gli occhi sulla locandina “Tito- dal Titus Andronicus di W. Shakespeare-regia M. Di Stefano”.
Sto per vedere uno spettacolo che, anche con i tagli del caso, è uno dei più lunghi e complicati del bardo. In una giornata di quelle a 37° senza un filo d’aria.
E poi… M. Di Stefano? … come a dire MARCO di Stefano?
Marco è regista e autore affermato a livello internazionale, i suoi testi rappresentati letteralmente fino in Cina… e incidentalmente -in un troppo troppo breve laboratorio di tanti anni fa- anche uno dei miei insegnanti.
Sono combattuto… non so cosa aspettarmi! il Tito è una sfida molto ambiziosa per allievi al secondo anno, ma in fondo mi sono appena dovuto ricredere sui primi anni!
… e poi Marco sa molto molto bene quel che fa…
Quindi mi ficco le inutili paranoie in un angolo non censito della mente: sono o non sono io il primo a sostenere che in teatro bisogna buttarsi? Sul palco, sui libri, in aula e in platea… è tutto lì il senso della “fame di teatro”: la fame da lupi che Teatro dei Lupi ha eletto a firma di ogni sua produzione…complice il caldo, sento di averla un po’ tradita, la mia fame, e, quindi, appena il teatro consente di prender posto, sono tra i primi.
La Sala Vigneron è stata sventrata: pareti, spazio scenico e posti a sedere hanno cambiato posto ricavando un’arena, dove la guerra si prepara, si combatte e si mantiene viva come una fiamma Vestale. Due gruppi, due famiglie, due fazioni… in nero e bianco, con i colori di battaglia addosso, si fronteggiano in posa plastica. Con l’umido sembra ci siano 330°, ma i ragazzi non fanno una piega mentre il pubblico lentamente prende posto.
È un pubblico che perde tempo a guardarli col sorriso sulle labbra perché in fondo è un saggio: sono amici e parenti e compagni di avventure, quelli che si siedono a pochi passi dagli attori. Ma loro non fanno una piega.
Lo spettacolo non comincia, esplode.
Ogni personaggio è preparato con amore dall’attore, che non lo interpreta, ma lo indossa come un vestito. Non si curano del numero di battute e della tempo di scena che occuperanno… sfilano davanti a me in quasi due ore di spettacolo, scomode per la mia schienaccia da usato semi-garantito, calde per il pubblico che gremisce la sala, accalcato sulle comode sedute della Sala Vigneron, e torride per tutti gli attori che non sono fermi un istante.
La regia è chiara ed incisiva, è un caos è organizzato che scivola come seta sulla pelle. Le due ore passano via veloci davanti agli occhi pieni di meraviglia.
Mettiamo sul piano di lavoro anche questo spettacolo e uniamolo ai primi anni ed al loro fresco e originale approccio a Golding.
Hanno molta strada da fare, questi ragazzi, hanno moltissimo da imparare e ancor più da vivere prima di essere attori fatti e finiti. Ma se la loro passione è forte, la loro fame di teatro è avida, oggi forse più della mia! Quello che gli è stato insegnato da Ivan Taverniti, da Andy Ferrari, e dal team di insegnanti che gravita attorno alla scuola di Acting di Mohole, è il teatro della gioia, dell’impegno, della fatica. E anche delle soddisfazioni.
Questi giovani attori in formazione sono guidati in questo lavoro difficile e bellissimo senza sradicare la bellezza della loro età… soprattutto continuano a viverla quella età, ad averla, indomita, quella fame. Senza le paranoie ed i dubbi e la prudenza pavida che spunta,a volte, a quelli come me, dopo un certo compleanno.
Si vede che questi ragazzi sono formati, ma non contaminati, perché dopo i massacri del Tito, dopo la selvaggia amarezza di Golding, non perdono il sorriso: e mezzora dopo l’ultimo inchino stanno già ballando e si lanciano in testa bombe d’acqua.
Il vostro redattore, di nuovo affamato, ha preso anche quelle dal Nothing Festival. E ha riso di gusto.