L’inarrestabile affermazione dell’on-line
La pandemia ha ribaltato un sacco di coperchi, mostrando realtà ignorate sino al giorno prima del lockdown.
Un giorno ci siamo svegliati e abbiamo scoperto che un sacco di lavori non hanno realmente bisogno di una postazione in ufficio.
Smart working: sdoganato. Check!
Poi abbiamo capito cosa volevano dire tutti quelli che da anni blateravano dell’importanza di internet accessibile per tutti.
Banda larga: bene primario. Check!
E abbiamo zittito tutti i tecnofobi, quelli con la tessera telefonica della SIP ancora nel portafoglio accanto al bancomat.
Lo smartphone: elemento indispensabile alla vita sulla Terra. Check!
Mentre prendevamo consapevolezza di tutto questo, e di tutto quello che non citiamo (per non andare fuori tema), osservavamo noi stessi precipitare sempre più nel labirinto dei social.

Corsi online, spettacoli online, letture in diretta Facebook, video buffi su TikTok, video buffi su Instagram, video buffi su YouTube, video ammiccanti su Snapchat, parole spazzatura su Twitter, kittens savant su Pinterest, immagini casuali su Flickr, facce in diretta su Twitch e tutti i loro fratelli piccoli e grandi che suggono dalla grande mammella che è internet negli anni 202-x.
Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i pixel
Per qualcuno è stata una liberazione, per altri una tragedia. La tragedia è storicamente roba da artisti, e infatti molti degli emarginati che non riescono a comprendere come vivere di post e reel e stories sono artisti.
Il vostro redattore ha navigato sino alle Colonne d’Ercole della socialmedialiltà e si è fatto una sua idea.
L’artista è abituato a rielaborare la realtà. La mente dell’artista è calata sino alle radici nel fiume della vita, da cui assorbe linfa vitale e ispirazione che traduce in arte.

Secondo l’inclinazione, l’artista prende un picnic al parco e ne fa una montagna di macchie colorate. Prende lo sbocciare dei fiori al disgelo e ne fa una sinfonia sulla primavera.
Pensate quanto strani sono gli artisti: uno nel 1594 ha preso l’amore impossibile e ne ha fatto una tragedia di due adolescenti; un altro, invece, nel 1942 con la stessa materia prima ha fatto un film di smoking bianchi e fumosi pianobar.

E pensate che follia è successa nel 1980! È successo che Mark Knopfler ha preso Romeo e Giulietta e ne ha fatto una sonata ironica e dolcissima dell’amore non corrisposto. Roba che se una cosa sola va dritta in Shakespeare, che i due pischelli si amano a vicenda, i Dire Straits gli han levato pure quello. E han cambiato il mondo.
Gli artisti vedono una cosa e pensano: vorrei vedere quella stessa roba lì fatta a modo mio. A volte, ma solo a volte, la loro interpretazione della realtà è talmente potente che cambia il modo in cui la vedono tutti quanti.
A volte uno dei milioni di artisti di ogni generazione è uno Shakespeare, un Monet, un Curtiz, un Vivaldi. E quando accade, tutto il mondo vede Romeo e Giulietta e pensa: “Non ci avevo mica pensato sino a oggi, ma quell’amore impossibile è pur sempre AMORE!”
L’artista è uno abituato a pensare così. Uno che di mestiere prende roba che vede e che sente e ne fa arte.
E ci spera, di essere bravo. Non ci pensa troppo che altrimenti porta sfiga, ma sottovoce immagina che un giorno si parli di lui come… beh, non come uno Shakespeare, magari un Christopher Marlowe. Facciamo un Tirso de Molina e non se ne parla più!
L’artista spera di lasciare il segno, almeno un segno. Un’opera nella propria carriera che dica qualcosa ai posteri. Ci pensa nel buio che precede il sonno, e al risveglio ricomincia il suo lavoro da amanuense del filtraggio della realtà.
Quando l’essere umano entra in contatto con il linguaggio dell’artista, qualcosa in lui si smuove. Grazie a quello smottamento, noi mortali ricordiamo e facciamo nostra l’arte.
La modifichiamo, in una certa misura, mentre in un altro modo l’arte modifica noi. E così il linguaggio dell’artista si diffonde, e l’arte cambia il mondo.
L’aperta tenzone che lancio ai demoni del nostro tempo

I social sono i demoni del nostro tempo, entità impalpabili che governano la nostra realtà. Rendendola difficile da colorare, da scuotere con la nostra musica, da plasmare con i nostri scalpelli, da piegare con le nostre parole e le nostre rime.
Perché i social non sono persone. Gli esseri umani sono flessibili, malleabili: non per niente una certa favoletta li immagina modellati nell’argilla.
Invece i social non hanno orecchie, né cuori che possano battere più forte o pelli che possano imperlarsi di sudore ghiacciato. I social network sono algoritmi, non sono fatti d’argilla, né di ferro, che sarebbe più duro, ma sempre lavorabile. Sono fatti di logica distillata in bit.
In questi tempi di comunicazione differita, distanziata e codificata, l’artista boccheggia. Il suo linguaggio, che è il suo unico strumento di comunicazione, i social non lo capiscono, perché i social capiscono solo il loro algoritmo e l’artista fatica ad adattarsi.
Abbiamo sempre un vantaggio sui mostri e sui demoni , quello che abbiamo sempre avuto: loro non esistono. Non davvero. La nostra arte invece, buona o cattiva che sia, è viva e fa parte del mondo che puoi sentire tra le mani e sotto i denti.
La nostra mente troverà sempre un modo di fregarli, questi demoni di zeri e uno, e di arrivare agli occhi e alle orecchie e alle viscere del mondo che vogliamo cambiare.
Infatti il vostro impavido redattore li sfiderà in aperta tenzone! Pubblicherà sui social il link a questo articolo, che parla male di loro.
E quegli sciocchi non se ne accorgeranno nemmeno!
In barba alle Intelligenze Artificiali, questa mano l’ha vinta l’artista.
A.C. Editoriale 12 Febbraio 2021