Un parallelo tra economie in ginocchio
Il vostro impavido redattore lavora a Milano. La sua scrivania è come i capelli di Sansone e gli dona il potere di resistere alla distrazione che insidia la produttività.
La scrivania, sede del sapere e dell’ energia creativa, sta in Piazza Napoli, presidiata dal lupo guardiano.
È necessario un impervio viaggio quotidiano per raggiungerla, incastonata nell’alveare accogliente e stimolante di Iglù. Ma ne vale sempre la pena.
Presto giungeranno su queste pagine tracce indelebili sull’iniziativa IGLÚ, ma in questa sede concentriamoci sul quotidiano Viaggio dell’Eroe, che inizia in Brianza e finisce in fondo a Via Solari.
Il ritorno, la sera, è sempre popolato di pensieri confusi e preoccupati. Il precario sistema della cultura, scosso dalle misure in contrasto del covid, l’esito delle inziative in essere, l’evolvere della situazione.
Sono domande tormentate sui motivi di certe scelte nei DPCM e sul futuro incerto di chi lavora nel settore. Pensieri stanchi e dolorosi soffocati in malo modo dalla musica che strilla negli auricolari.
La testa è bassa, nel buio della sera, e lo sguardo è rivolto all’interno della cassa toracica, in cerca di quel che è rimasto dopo un anno senza teatro.
L’andata invece è piena di speranza. Immotivata, sciocca speranza disneyana. Come se le luci fredde del mattino milanese potessero zittire il suono delle ambulanze e riportarmi allo scorso gennaio. A quell’entusiasmo pieno di progetti e paura di non aver abbastanza tempo.
Evito i mezzi di superficie, così evito contatti troppo ravvicinati con quelle folle che a teatro non vedo dai tempi di Gaber, ma che sul 14 sono la normalità del mercoledì mattina alle 9.00.
E poi almeno faccio quattro passi: il mio malandato organismo ringrazia.
La passeggiata e la testa alta mi offrono l’occasione di guardare quella fetta di mondo che mi si offre, a seconda del percorso che scelgo per raggiungere il Valhalla della scrivania.
Microcaffè pensati per i pranzi degli uffici, officine che riparano biciclette, calzolai, una farmacia, modernissima dentro, che si apre su un muro che sembra bombardato ed è come scavata nella roccia.
Panettieri e pasticcerie e fiora… I fiorai con i muri e il negozio, non solo i chioschi. E supermercati, mediomercati, e micromarket. E ristoranti italiani, All you can eat di cucina fusion, ramerie, paninerie, piadinerie e pizzerie.
E un negozio di pasta fresca fatta in casa, un rivenditore di cialde di caffè, diversi parrucchieri, un negozio della Città del Sole e un paio di agenzie immobiliari.
E un gommista, un ferramenta, un negozio di tendaggi e sartoria, un centro massaggi, un solarium,
E basta. Sono abbastanza sicuro che sia tutto.
Attorno alle botteghe, tante tante case. Finestre chiuse al freddo della strada dove brillano gli schermi di lavoratorə in smart working, freelance, cassainegratə, casalinghə, singles e accoppiatə, ragazzə all’università che dividono l’affitto.
Qualche mattina, i miei occhi tentano disperatamente di convincere il resto del corpo che si è tutti ancora sotto il piumone. Il gelo di viale Coni Zugna suggerisce, puntualmente, il contrario: il corpo quindi opta saggiamente per tenere entrambe le palpebre alzate.
È una Milano ferita, quella che osservo ogni mattina, ma qualcuno sanguina più di altri. In particolare certe piccole realtà sembrano davvero in difficoltà.
Messe in ginocchio dai centri commerciali e dalla G.D.O., le piccole botteghe si inventavano escamotage pazzeschi già prima del primo lockdown. Oggi: di più.
Chi serve cibo fa l’asporto, a volte appoggiandosi ai servizi online, a volte prestando camerieri, sous chef o cugini, al ruolo di rider.
Chi offre servizi, come il ciclista e il calzolaio, lavora praticamente sulla strada: la porta della bottega spalancata e quattro strati di maglioni e giacche a vento.
C’è un pittore in via Solari, che offre corsi d’arte e di pittura: e lo puoi vedere di persona, in vetrina già alle 8 e mezza, mettere in pratica le tecniche che insegna, on line, la sera.
C’è un corniciaio. Lo ho visto con dei campioni in mano spiegare la differenza tra uno e l’altro ad un cliente. Era in mezzo alla strada: guanti e mascherina.
Mi fermo, folgorato da un parallelismo sconvolgente. Il teatro e le piccole botteghe viaggiano sugli stessi binari.
Gli artigiani e i piccoli esercizi, come il teatro, sono dati per spacciati da almeno una generazione. Il teatro di più, ma seguitemi, di grazia, avidi lettori.
Come il teatro, le botteghe sono una categoria di cui nessuno si cura, dichiarati non essenziali: la loro importanza, la cultura che scorre nelle loro vene e prende forma nelle loro mani, è svilita e calpestata.
E come il teatro, contro tutto il resto tranne se stessi, trovano il modo di esserci ancora.
Un po’ per via di quello strano, illogico istinto di sopravvivenza. Un po’ perché, come il teatro, sentono il bisogno di esistere e sentono che il mondo ha bisogno che essi esistano, anche quando il mondo stesso sembra negarlo a gran voce.
AC. editoriale 21 gennaio 21