Fare teatro e fare cultura in generale, è sempre più difficile. I problemi sono molti sia interni al settore, sia normativi ed istituzionali, sia esterni, legati alla percezione che il grande pubblico ha della vita di chi ha studiato e vorrebbe campare della propria arte.

I profani, per usare un termine un po’ snob, spesso vedono gli artisti come scansafatiche un po’ bohemienne, con pochi legami con la realtà ed un vano desiderio di vivere di sogni … in tanti ci vedono come alieni che non capiscono l’importanza di un lavoro “vero”, come se dessimo un valore eccessivo e ridondante all’Otium tralasciando il sacro vincolo col Negotium.
Gli artisti per contro spesso sono davvero un pianeta a se stante. Avendo sempre lavorato con introspezione e tecnica, alcuni (ma non tutti!) si trovano ad aver avuto a che fare con problemi perlopiù poetici e assai poco prosaici… il che è incompatibile con una qualunque organizzazione del lavoro. Altri hanno avuto esperienze di lavori paralleli, da cameriere, da metronotte, da operaio… mezzi per mantenersi in attesa che la carriera decolli, escamotage temporanei che spesso diventano compagni quotidiani su cui la vita si assesta in un equilibrio anomalo e malsano di noia e insoddisfazione. Si alimenta così il disagio e la negatività con cui si affrontano le della professione artistica, riducendosi ad una maschera sarcastica e pessimista, che, guarda caso ben calza con la visione superficiale che ci riserva la società.
Mentre scrivo queste parole ho esempi in mente persone specifiche, casi umani con cui sono entrato in contatto, e talvolta ripenso a me stesso in alcuni frangenti: ma non ho pretesa di universalità. Sono solo convinto che pochi artisti in Italia vivano sereni, consapevoli e soddisfatti della propria arte, delle possibilità che hanno di esprimerla e del proprio reddito; e sono convinto che l’insoddisfazione degli altri non dipenda solo dall’insufficienza istituzionale o culturale… Anche, ma non solo…

Il vostro libero pensatore, vi propone le proprie riflessioni in questo blog, e si pone con modestia e prudenza al tema: la mia personalissima esperienza non può e non deve essere presa come legge. Tuttavia, fosse anche a titolo di mero pour-parler, condivido le mie riflessioni.
Spero di essere smentito, commentato, discusso, spero che qualcuno si trovi in linea con le mie idee, come è umano, ma, in verità, il vostro cronista delle idee attende con più ansia il dibattito costruttivo che spero nasca da queste poche righe da parte di chi non condivide le mie idee.
Io credo che la professionalità, nei mestieri della cultura, stia vivendo oggi una vorticosa situazione di mordicosimo. Da un lato il cane della società, proteso a fauci aperte e bavose, che dopo ormai 20 anni di crisi economica e culturale, a stento riconosce la fatica dietro al merito artistico, come se il talento di Bocelli, Servillo, Berio, Allevi, Timi … fossero magie esplose dal nulla come fuochi d’artificio. Sull’altro lato la coda della comunità della cultura che troppo spesso si rifugia agli estremi o dell’elitarismo o del populismo estremo, ignorando le meravigliose sfumature di grigio dove si annidano infiniti contenuti portati al pubblico con linguaggio e codici comprensibili.
In parole povere: io vedo due motori a spingere con propulsione diversa, ma nella stessa direzione: di questo passo l’arte non può che finire nella palude dell’indifferenza collettiva dove già sembra diretta.
La società sta perdendo gli strumenti per comprendere l’arte e il lavoro degli artisti, dall’altro sono gli artisti stessi ad essere investiti del ruolo sociale di divulgatori della cultura. Siamo noi a dover mantenere in vita quegli stessi strumenti, spetta a noi flettere quei muscoli doloranti e scuoterli dal torpore. Non è il paziente a cercare la cura.
Soprattutto in questo momento storico in cui la recente politica ha spinto la percezione dell’arte oltre la boa del “per pochi” verso il mare aperto dell’inutile ed incomprensibile filosofia: gli artisti devono trovare la forza di riportare in carreggiata i pensieri, senza scendere a compromessi, senza rinunciare alla qualità tecnica e semantica… ma anche senza chiudersi in codici incomprensibili per i più.
È difficile? Certo che lo è! Cosa è semplice se parliamo di professionalità? Una dichiarazione dei redditi non è semplice, un intervento chirurgico non è semplice, la coltivazione di un campo non è semplice: perché dovrebbe esserlo fare arte?

L’arte non può svincolarsi dalla società, non può prescindere dal confronto con la realtà, non solo nei contenuti, ma anche nei mezzi e nella scelta degli strumenti. La cultura non può procedere per la propria via, compresa solo dagli artisti, tanto quanto non può ridursi a mera operazione commerciale per riempire le maxiarene delle metropoli. E non c’è se non l’arte stessa per impedire questa polarizzazione estrema.
Serve un delicato equilibrio di disciplina e libertà espressiva, di gioia ed entusiasmo accanto al controllo. E soprattutto, prima di tutto, serve il rispetto: per la propria arte e per quelle che vi si affiancano. Attori con registi, pittori con galleristi, musicisti con tecnici del suono… sono rapporti professionali in cui il rispetto reciproco equivale al rispetto per se stessi. È la base di ogni relazione e di ogni progetto di successo. E non si parla qui, solamente di “stima”, di ossequio e reverenza, ma anche e soprattutto di piccoli gesti molto pratici: puntualità, cortesia, disponibilità, gratitudine per le possibilità ricevute e onestà nelle richieste. Come per qualunque altra professione. Tutto parte da qui, da noi, da quanto vogliamo bene a noi stessi e all’arte di cui abbiamo scelto di vivere.